Invocato, sognato e ciclicamente da qualche decennio a questa parte riproposto alla ribalta della cronaca, il ponte sullo Stretto è diventato per il governo in carica una questione di principio. Una sorta di bandierina da piantare sul terreno sempre insidioso delle (numerose) promesse elettorali, costi quel che costi. 

Dopo il sì del Senato il ponte è legge. Tradotto: si farà. Come auspicato dal ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, i lavori dovrebbero cominciare nell’estate 2024, per concludersi dopo sette anni, in tempo per salutare il primo transito, atteso nel 2032. Un’opera colossale quanto controversa. In un certo senso divisiva, anche se il compito di un ponte è piuttosto quello di unire. 

Ma non è certo questo il caso del ponte tra Calabria e Sicilia. Immaginato per la prima volta oltre mezzo secolo fa, nel 1968. Quando, in virtù della legge 384, Anas, ferrovie dello Stato e Cnr vengono incaricati dal ministero dei Lavori pubblici di realizzare uno studio, appunto, sulla fattibilità del Ponte. 

È il primo passo ufficiale di un progetto che negli anni accelererà o subirà bruschi stop a seconda del governo in quel momento in carica: favorevoli quelli guidati da Berlusconi, fortemente contrari gli esecutivi di Prodi e Monti, con quest’ultimo che blocca definitivamente l’opera nel 2012, portando alla messa in liquidazione della società Stretto di Messina. 

Con l’insediamento del governo Meloni il progetto del ponte riprende quota, peraltro ripartendo (con opportune variazioni tecniche) proprio dal progetto stoppato dieci anni prima dal governo Monti. Con il via libera, il ministero dell’Economia riattiva la società Stretto di Messina convertendola in società in house (controllata al 51 per cento, con partecipazioni minori per Anas, Rfi e le due regioni interessate, Calabria e Sicilia).

Un’opera complessa con numeri da record

Si arriva così al 16 marzo scorso, giorno in cui il titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti svela il plastico dell’opera. Senza tuttavia cancellare i dubbi su quella che lo stesso Salvini ha trionfalmente presentato come «la più grande opera green al mondo».

Un’opera faraonica e complessa. Sarà, o meglio sarebbe dire, dovrebbe essere, il ponte sospeso strallato a campata unica più lunga al mondo: 3.300 metri di lunghezza (quella dell’attuale primatista, il giapponese Akashi Kaikyo, che collega la città di Kobe con l’isola di Awaji, misura 1.991 metri, per una lunghezza totale di 3.911 metri) che diventano 3.600 metri considerando anche le estremità a terra. Numeri appunto da record, che si combinano con i 399 metri di altezza delle due torri, i 60,4 metri di larghezza dell’impalcato (sospeso a 65 metri di altezza per la navigabilità, ma i cruiser più grandi non passano) che ospiterà sei corsie stradali (tre per ciascun senso di marcia, compresa quella d’emergenza) e due binari ferroviari. Cuore del sistema di sospensione, due coppie di cavi di 1.260 mm di diametro ciascuno, per 5.320 metri di sviluppo totale.

Il tutto per una capacità di transito prevista di circa 6 mila veicoli e 200 treni al giorno, che proiettati sull’arco di un anno fanno 6 milioni di veicoli e 60 mila treni.

Fino qui le cifre, che tuttavia non spiegano tutto. Soprattutto non cancellano i dubbi riguardo un’opera che se da una parte, oltre ai benefici legati al minor traffico di navi e traghetti nello Stretto con conseguente riduzione dei tempi di spostamento tra Calabria e Sicilia e al positivo impatto economico in termini di occupazione, consentirà, per dirla con le parole di Salvini, di risparmiare «almeno 140 mila tonnellate di COnell’aria», dall’altra pone una serie di interrogativi di non poco conto. 

Il riferimento non è soltanto per l’investimento necessario, circa 13,5 miliardi di euro (nel 2011 erano 8,5 miliardi) che considerando anche le opere complementari salirebbero addirittura a 15 miliardi, in pratica tutti da reperire. Piuttosto, a dar voce al coro dei (decisamente) contrari alla realizzazione del ponte, sono gli aspetti legati appunto alla complessità dell’opera e alla sua sicurezza. 

Proprio lì i terremoti più forti d’Italia

Come non considerare, ad esempio, la criticità sismica di un territorio che, come ricorda Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, è zona «notoriamente soggetta a terremoti tra i più forti che possono colpire l’Italia». 

Vero, il ponte è stato progettato per resistere a un sisma di 7,1 gradi della scala Richter (e per dirla sempre con Doglioni, abbiamo ingegneri sismici in grado di realizzare infrastrutture resistenti a eventi di questo genere), nonché garantire stabilità in caso di venti fino a 270 all’ora, permettendo il transito veicolare fino a una velocità del vento di 158 all’ora (per i treni, velocità di 120 all’ora con raffiche fino a 150, e marcia a 60 all’ora con vento fino a 190). Ma detto questo, non scordiamoci che siamo anche il Paese in cui, non più tardi di cinque anni fa, un’arteria viaria importante come il Ponte Morandi, si è sbriciolato, per incuria e avidità, provocando la morte di 43 persone, scoperchiando l’amarissima realtà di un degrado infrastrutturale di ponti e viadotti nazionali magari anche insospettabile, in tutti i casi certamente non degno di un paese che si vanta di essere tra i più industrializzati e all’avanguardia.

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